Economia. Bondi su Parmalat - Le banche sapevano tutto.
Da La Stampa Web.
Il tono monocorde da ragioniere pignolo che Enrico Bondi decide di usare fin dalle prime battute della sua lunga testimonianza, non toglie nulla al deflagrare delle cifre che il commissario straordinario di Parmalt snocciola con precisione per illustrare l’abisso finanziario dell’azienda di Collecchio. E alla fine lascia tramortito più di un protagonista di questa vicenda, il cui default, che lo stesso Bondi indica in 13 miliardi e 900 mila euro, ricadde sulle spalle dei piccoli risparmiatori. Non si salvano le banche, che tanto generosamente finanziarono Parmalat con l’emissione ripetuta di bond simile a una catena di Sant’Antonio.«È fuori dubbio - dice Bondi - che fossero a conoscenza della reale situazione di Parmalat, bastavano semplici confronti sull’indebitamento dichiarato a bilancio. Di fatto hanno concorso alla falsa rappresentazione della situazione economica e finanziaria del gruppo». Non si salvano gli amministratori, i manager, i sindaci: «Per nascondere la realtà si ricorse a operazioni contabili spesso grossolane, realizzate attraverso il sistema di “scatole cinesi” formato da società finanziarie off-shore, domiciliate nei cosiddetti “paradisi fiscali”». Non si salvano i revisori dei conti, quelli di Grant Thorton e di Deloitte: «Già nel 1997 era evidente una differenza quanto meno significativa tra l’esposizione debitoria dichiarata a bilancio e quella rilevabile attraverso i canali d’informazione. Si deve concludere quindi che il dissesto fosse conoscibile almeno agli addetti ai lavori». E non si salva nemmeno lui, l’antico patron, il cavalier Calisto Tanzi, seduto compunto come uno scolaretto sul banco degli imputati, stretto tra i suoi legali, infagottato in un cappotto pesante, attentissimo ad ogni parola dell’uomo che ora non lo degna quasi di uno sguardo e che in un primo tempo proprio lui aveva chiamato come consulente, su richiesta esplicita di Mediobanca, per tentare di cavarsi dai guai. «L’affossatore» e il «ristrutturatore», si confrontano a distanza, senza mai parlarsi. Eppure, la spietata ripartizione delle responsabilità contenuta nella relazione di Bondi, in qualche modo pare risollevare il «Cavaliere» che durante una pausa del processo, lo definisce «uno bravo». «Sono a posto con la mia coscienza», sussurra Tanzi. «Ma ho molte cose da rimproverarmi, più di una, in verità». Un’ora dopo abbandonerà l’aula, «troppo fredda», per un leggero malore. Dentro, Bondi prosegue nel suo «j’accuse»: «Il gruppo - dice a un certo punto - dal 1998 al 2003 si è dimostrato un vero e proprio divoratore di cassa perchè cresciuto per linee esterne non redditizie, perchè oberato da distrazioni imponenti e perchè invischiato, per tentare di occultare lo stato d’insolvenza, in operazioni finanziarie di grandi dimensioni, sempre più costose». Bondi ricorda il suo arrivo a Collecchio nel dicembre del 2003, chiamato proprio da Tanzi «per un problema di liquidità». Diventato in pochi giorni un disastro finanziario senza precedenti. «Durante un incontro urgente e riservato del 18 dicembre» con il presidente della Consob Lamberto Cardia, Bondi sostiene che venne a sapere di un primo “buco” pari a tre miliardi e 900 mila euro. Diverso è il ruolo delle banche e delle istituzioni finanziarie italiane che, sostiene Bondi, oggi come allora «sono state impegnate in prevalenza in operazioni di fiananza ordinaria, anticipo su fatture attive, Riba, scoperto di conto corrente. La peculiarità di queste operazioni consisteva nel fatto che uno stesso documento veniva finanziato più volte. E in un caso fino a 60 volte. Così tale finanza, impropriamente ottenuta, ha contribuito anch’essa a mantenere in vita artificialmente il gruppo». Quel che Bondi in aula non riesce a dire, perchè gli avvocati lo contestano come «parere personale» è che l’incredibile si è raggiunto con il fatto che «l’azionista di maggioranza, i massimi dirigenti ad esso collegati e i loro consulenti di fiducia abbiano potuto creare e mantenere per così lungo tempo il “consenso” e la convergenza di interessi che hanno consentito di gestire per oltre un decennio il costante deterioramento della situazione economica e finanziaria del gruppo, prima di arrivare al clamoroso stato d’insolvenza». Il processo riprenderà il 7 marzo, con il controesame degli avvocati.
Il tono monocorde da ragioniere pignolo che Enrico Bondi decide di usare fin dalle prime battute della sua lunga testimonianza, non toglie nulla al deflagrare delle cifre che il commissario straordinario di Parmalt snocciola con precisione per illustrare l’abisso finanziario dell’azienda di Collecchio. E alla fine lascia tramortito più di un protagonista di questa vicenda, il cui default, che lo stesso Bondi indica in 13 miliardi e 900 mila euro, ricadde sulle spalle dei piccoli risparmiatori. Non si salvano le banche, che tanto generosamente finanziarono Parmalat con l’emissione ripetuta di bond simile a una catena di Sant’Antonio.«È fuori dubbio - dice Bondi - che fossero a conoscenza della reale situazione di Parmalat, bastavano semplici confronti sull’indebitamento dichiarato a bilancio. Di fatto hanno concorso alla falsa rappresentazione della situazione economica e finanziaria del gruppo». Non si salvano gli amministratori, i manager, i sindaci: «Per nascondere la realtà si ricorse a operazioni contabili spesso grossolane, realizzate attraverso il sistema di “scatole cinesi” formato da società finanziarie off-shore, domiciliate nei cosiddetti “paradisi fiscali”». Non si salvano i revisori dei conti, quelli di Grant Thorton e di Deloitte: «Già nel 1997 era evidente una differenza quanto meno significativa tra l’esposizione debitoria dichiarata a bilancio e quella rilevabile attraverso i canali d’informazione. Si deve concludere quindi che il dissesto fosse conoscibile almeno agli addetti ai lavori». E non si salva nemmeno lui, l’antico patron, il cavalier Calisto Tanzi, seduto compunto come uno scolaretto sul banco degli imputati, stretto tra i suoi legali, infagottato in un cappotto pesante, attentissimo ad ogni parola dell’uomo che ora non lo degna quasi di uno sguardo e che in un primo tempo proprio lui aveva chiamato come consulente, su richiesta esplicita di Mediobanca, per tentare di cavarsi dai guai. «L’affossatore» e il «ristrutturatore», si confrontano a distanza, senza mai parlarsi. Eppure, la spietata ripartizione delle responsabilità contenuta nella relazione di Bondi, in qualche modo pare risollevare il «Cavaliere» che durante una pausa del processo, lo definisce «uno bravo». «Sono a posto con la mia coscienza», sussurra Tanzi. «Ma ho molte cose da rimproverarmi, più di una, in verità». Un’ora dopo abbandonerà l’aula, «troppo fredda», per un leggero malore. Dentro, Bondi prosegue nel suo «j’accuse»: «Il gruppo - dice a un certo punto - dal 1998 al 2003 si è dimostrato un vero e proprio divoratore di cassa perchè cresciuto per linee esterne non redditizie, perchè oberato da distrazioni imponenti e perchè invischiato, per tentare di occultare lo stato d’insolvenza, in operazioni finanziarie di grandi dimensioni, sempre più costose». Bondi ricorda il suo arrivo a Collecchio nel dicembre del 2003, chiamato proprio da Tanzi «per un problema di liquidità». Diventato in pochi giorni un disastro finanziario senza precedenti. «Durante un incontro urgente e riservato del 18 dicembre» con il presidente della Consob Lamberto Cardia, Bondi sostiene che venne a sapere di un primo “buco” pari a tre miliardi e 900 mila euro. Diverso è il ruolo delle banche e delle istituzioni finanziarie italiane che, sostiene Bondi, oggi come allora «sono state impegnate in prevalenza in operazioni di fiananza ordinaria, anticipo su fatture attive, Riba, scoperto di conto corrente. La peculiarità di queste operazioni consisteva nel fatto che uno stesso documento veniva finanziato più volte. E in un caso fino a 60 volte. Così tale finanza, impropriamente ottenuta, ha contribuito anch’essa a mantenere in vita artificialmente il gruppo». Quel che Bondi in aula non riesce a dire, perchè gli avvocati lo contestano come «parere personale» è che l’incredibile si è raggiunto con il fatto che «l’azionista di maggioranza, i massimi dirigenti ad esso collegati e i loro consulenti di fiducia abbiano potuto creare e mantenere per così lungo tempo il “consenso” e la convergenza di interessi che hanno consentito di gestire per oltre un decennio il costante deterioramento della situazione economica e finanziaria del gruppo, prima di arrivare al clamoroso stato d’insolvenza». Il processo riprenderà il 7 marzo, con il controesame degli avvocati.